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I FRATELLI GALLI, PATRIOTI E SCIENZIATI DELL’ETA’ ROMANTICA

Nove figli ebbero il farmacista Carlo Domenico Galli e la moglie Margherita Canaveri: Fiorenzo, il primogenito, nacque nel 1802; l’anno dopo Celestino, e poi Giuseppe, Anna, Giulia, Maria, Carlotta, Giovanni, Domenica. Presero strade assai diverse: così, se Giuseppe entrò nei padri Somaschi e divenne elemosiniere della principessa Clotilde di Savoia, e Giovanni (classe1812) studiò da farmacista, preferendo poi il giornalismo, Fiorenzo e Celestino praticarono le armi e gli studi in condizioni difficili e rischiose, con ardente e romantico fervore intellettuale e patriottico. Fiorenzo avvertì fin da giovanissimo i limiti del natio borgo. E neppure si sentì a suo agio dietro uno sportello di banca a Torino. Entrò volontario nel Reggimento “Cuneo”, e tra i commilitoni cospirò per acquistar proseliti al moto che stava per scoppiare. Falliti i moti del ’21 e le speranze in Carlo Alberto, Fiorenzo fu tra i proscritti, e si salvò con l’esilio. Riuscì ad imbarcarsi clandestinamente a Livorno ed a recarsi in Spagna, dove moti sovversivi erano ancora in atto.

Anche Celestino, di un anno più giovane di lui ed ugualmente fervido e inquieto si era compromesso, ed aveva dovuto fuggire col fratello dai rigori del ministro Solaro della Margarita. In Spagna erano accorsi numerosi altri esuli italiani, tanti da formare un battaglione agli ordini del generale spagnolo Francisco Espoz y Mina. Ma anche fra gli esuli correvano contrasti e tensioni che stavano rendendo infuocata e terribile la guerra civile, tra massacri e fantasmi di Comuneros e di Sanfedisti. Il generale Mina, vista la condotta del battaglione e le divergenze fra i capi, dovette infine scioglierlo. Assunse però Fiorenzo sotto il suo diretto comando, come aiutante in campo. Schierato apertamente col gruppo degli Amici della Costituzione (“Anilleros”), Fiorenzo portò queste sue idee nella redazione di “El Europeo”, la rivista di Ariban e Soler che, da Barcellona, fu all’avanguardia del movimento romantico in Spagna. L’intervento della Santa Alleanza fece percepire la crisi spagnola e riaprì anche per i fratelli Galli il capitolo dell’esilio.
Per evitarlo Fiorenzo arrivò a scrivere al duro generale piemontese La Tour, il 25 ottobre 1823: gli parlò delle proprie peripezie, delle proprie ferite, e senza strisciare, gli chiese di poter rientrare in Piemonte. La Tour rispose al console sardo a Madrid di consigliare il Galli a pensarci due volte prima di rimettere piede negli Stati Sardi. Dunque, ancora esilio.

Fiorenzo e Celestino raggiunsero Londra, rassegnati ad una dura vita di stenti. A Londra Fiorenzo fu raggiunto da un invito del gen. Mina a rientrare in Spagna per un nuovo tentativo di insurrezione. No, grazie, rispose Fiorenzo, e preferì salpare per il Messico. Qui si gettò di nuovo nel giornalismo politico, e con il conte Linati di Parma diede vita ad un giornale trilingue, “Iris”; poi, nel ’27, tornò a Londra, dove ritrovò Celestino e trovò anche il tempo per sposare la scrittrice irlandese Luisa Dunn. Con lei si spostò a Bruxelles, dove perfezionò il manoscritto delle “Memorie sull’ultima guerra di Catalogna”, che l’editore Bousonge gli pubblicò nel 1829 a Parigi. Dai campi di battaglia, ma con lo stesso ardore, Fiorenzo era passato al campo degli studi, specie a quelli di linguistica comparata, e per approfondirli piantò le tende per più anni alla Biblioteca del Museo Britannico, non so dire con quanta gioia di Luisa.

Aveva un chiodo fisso: la monogenesi del linguaggio. Alla teoria allora dominante della poligenesi, sostenuta da August F. Pott, secondo cui nel mondo esisteva almeno un centinaio di gruppi linguistici senza parentela fra di loro, Fiorenzo era infatti deciso a contrapporre la teoria di una origine unitaria del linguaggio, pur nelle differenziazioni avvenute nei millenni. Il primo annuncio lo diede nel 1830 con un “Plan of philosophy about all modern opposite system founded on the word of God”, edito a Londra.  E subito si diede, aiutato dal fratello Celestino, a raccogliere materiale per un’opera colossale che avrebbe dovuto dimostrare la monogenesi anche visivamente. Sintesi di questi studi fu una grande “Tabula Philologica universi genesis humani”, pubblicata a Londra nel ’33, in cui dall’analogia delle forme si risaliva alla comune origine. “E’ la tavola sinottica di tutte le lingue parlate nell’universo e la più grande lastra stampata che sia apparsa in un pezzo unico in Inghilterra”, riferì la Literary Gazzette. Un lavoro massacrante, che lo prostrò. Ma Fiorenzo si riprese, e poté recarsi a Roma dove, introdotto da suo fratello Giuseppe, che apparteneva all’ordine deli Somaschi, ebbe un incontro col cardinal Mezzofanti, famoso linguista, e poi col Papa Gregorio XVI, cui consegnò la Tabula.
Concessa finalmente da Carlo Alberto un’amnistia a numerosi esuli, Fiorenzo potè rivedere il suo Piemonte. Qui pubblicò ancora una “Geografia d’Europa”, “Le verità della Religione Cattolica”, la “Teoria dell’Universo”. Ma continuava ad essere insofferente di confini ristretti, anche in relazione ai suoi studi e teorie. Scossa dalle fatiche dello studio e di una vita così intensa e agitata, la sua saluta ne risentì. Da Genova, dov’era viceconsole d’America, fece in tempo a venire nella natia Carrù per esalarvi l’ultimo respiro. Era l’8 dicembre 1844. Aveva solo 42 anni. 42 anni ben spesi.

CELESTINO E IL “POTENOGRAFO”

Intelligenza ugualmente viva, ma più incline alle applicazioni pratiche, ebbe Celestino, il secondogenito dei Galli, che condivise per buon tratto gli slanci liberali e la sorte di esule del fratello. Intorno al 1830, mentre era professore di varie lingue a Londra, Celestino si applicò alla creazione di una macchina da scrivere: un’idea su cui si erano già arrovellati numerosi ingegni dal Cinquecento in poi, ma con risultati incerti e marchingegni ingombranti, lenti e complicati. Celestino ne mise insieme uno trasportabile e funzionante, e ne diede trionfante annuncio alle Accademie ed ai giornali più importanti d’Europa. “Questo strumento che chiamò Potenografo – scrisse – ha la forma di un piccolo clavicembalo e se ne fa uso per iscrivere. Una mano è incaricata di stampare le consonanti, l’altra le vocali i di cui caratteri cadono sulla carta che cammina di mano in mano che ha ricevuto i segni di una sillaba…per mezzo di una inclinazione combinata di una mano sopra i tasti delle consonanti, mentre cade la sinistra su quelle delle vocali, la mia scrittura diventa sillabica.

Il vantaggio consiste in ciò, che i segni del Potenografo essendo già fatti e dovendo solo cadere sulla carta, che va da destra a sinistra di mano in mano che riceve il segno, la scrittura deve essere regolare, chiara e quindi leggibile.
Grazie ad un procedimento già notissimo, molte copie di uno stesso scritto possono essere scritte in una sola volta”. Troppo complicato? No, bastava poca abitudine, ed ecco schiudersi possibilità meravigliose: “Di notte tempo con un Potenografo sospeso ad un letto, il poeta, lo scrittore, l’operatore possono in una veglia o in un momento di ispirazione dar corpo ai loro pensieri. Riposandosi può il viaggiatore continuare il suo giornale, il negoziante può di giorno registrare nel suo banco la corrispondenza; il Giudice d’istruzione può così sincerarsi della veracità dei testimoni, il Generale della esattezza delle relazioni, il Re della sincerità degli ambasciatori… L’invenzione della scrittura trasse gli uomini dalla barbarie; aprì quella della stampa un vasto campo all’incivilire; possa questa spingerci verso la sua perfezione: sono i voti da me espressi”. Ai segni stenografici, Celestino sostituì presto 31 leve con caratteri di stampa. Nel dare il primo annuncio in Italia della felice invenzione dell’esule, il “Teatro Universale” di Torino spiegò, il 6 dicembre 1834: “Il Potenografo scrive parole colla rapidità con cui gli augelli fendono, volando, gli spazi”. E l’Enciclopedia Italiana edita a Venezia nel 1853, vol X, Appendice, ne fornì un’accurata descrizione, ripresa più recentemente da Artemio Ferrario in “Invenzioni ed Inventori nel XX secolo”, Bompiani, Milano.
Ce n’è quanto basta per rivendicare a Celestino Galli e alla sua Carrù l’onore dell’invenzione della macchina da scrivere moderna, sottraendolo al notaio novarese Ravizza che solo il 1° novembre 1855 ottenne un attestato di privativa industriale per il suo “cembalo scrivano”? L’ing. Antonio Conti, discendente dei Galli, non aveva dubbi in proposito, e per decenni non si concesse requie e non ne concesse agli altri per ottenere giustizia a Celestino. Oltretutto egli non riusciva a rassegnarsi di un fatto: il Potenografo era lì, sul solaio della sua casa carrucese, ed egli da bambino, con gli amici smontò leva per leva, tasto per tasto! Dopo il colpo di genio del Potenografo, Celestino si lasciò riprendere dal vortice dell’azione. Tornò in Spagna contro i Carlisti, a combattere in Aragona e Navarra agli ordini del gen. Espartero con altri liberali italiani e polacchi. E fra una battaglia e l’altra diede alle stampe “La ciencia de la dicha” e “El mundo en marcha”; poi passò in Francia, dove a St. Etiénne pubblicò un saggio sugli antichi Celti. Nel ’44 sposò la pittrice David (appartenente alla famiglia del celebre artista francese), anno di morte del fratello Fiorenzo. Solo nel ’48 potè tornare in patria. Fondò a Mondovì “Il Vero”, un foglio di accesso anticlericalismo (tanti anni passati in Spagna avevano lasciato anche questa traccia), e continuò a dar dolori al vescovo Ghilardi con il suo “Vero per il bene”, “La Bibbia e la scienza”, “Le razze umane”, perfino con il “Compendio di storia d’Egitto”. Anche sulla questione romana volle dire aggressivamente la sua, in “La soluzione della questione romana, in distici”. A sessant’anni, un po’ quietato, tornò nella natìa Carrù, e lì morì il 12 febbraio 1868.

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